
Ho sentito questa voce più volte. Ma non mi sono mai posta il problema, perché non è abituale. Succede solo in momenti che hanno un certo peso. Ora vi racconterò uno di questi.
Sono stata un’adolescente stolta, arrabbiata con il mondo e sempre pronta a far scoppiare una guerra. Questo l’ho sempre ammesso.
Quel giorno presi la macchina di mia madre—ancora non avevo la patente—e chiamai la mia compagna di disavventure. La chiameremo Chioma.
La chiamo e le dico: «Vieni, ho una pessima idea in mente. Mi accompagni?»
Lei non se lo fece ripetere due volte. «Aaaahahaha, mi cambio e vengo.»
Ci annoiavamo sempre, io e lei.
Non potevo andarla a prendere sotto casa, perché i suoi genitori già pensavano che fossi una cattiva influenza. Ma la verità è che la maggior parte dei nostri casini li partoriva il suo bellissimo e amatissimo cervello.
Appena arrivata, mi chiese in dialetto: «Che tocca fa’?»
Neanche si era legata bene i capelli. Mentre lo diceva, si faceva una coda, come a dare più realismo alla frase.
Le mostrai le chiavi della macchina, e subito le brillarono gli occhi. Colpa della nostra precedente esperienza: l’ultima volta avevo rubato le chiavi di mia madre, ma eravamo rimaste a piedi cento metri dopo, perché ovviamente non ero in grado di guidare. Ci salvò una vicina, dopo un cazziatone memorabile.
Questa volta, però, avevo imparato dai miei errori. Sapevo guidare quel tanto che bastava per farci un giro.
Presi dalle risate e dall’adrenalina, arrivai all’incrocio.
All’improvviso sentii una voce. UDIBILE. Non nella mia testa. Una voce maschile che mi strillò:
«FERMATI!»
Vi giuro, inchiodai.
E menomale!
Nel momento in cui alzai gli occhi, una macchina ci sfiorò. Alla distanza di un capello. Andava veloce, troppo. Tanto che la curva—la stessa in cui ci trovavamo noi—non riuscì neanche a reggerla. Sbandò, entrando di poco nella traversa dove mi trovavo.
Mi girai verso Chioma. «Hai sentito?»
Lei, ancora scossa: «Ho visto quel pazzo! Per poco non ci rimanevamo secche.»
«La voce non l’hai sentita?»
Si guardò intorno. «No. Quale voce?»
«Niente,» risposi. «Lascia sta’.»
Scosse, tornammo al sicuro. Io tremavo. Non solo per quello che avevamo evitato, ma perché quella voce, per me, era stata—solo quella volta—udibile.
Mi ricordò la stessa voce che sentii da bambina, quella che mi aiutò a scappare. Ne ho scritto un articolo.
Se mai mi dicessero di prendere una pillola per smettere di sentirla, gli risponderei che mi giocherei la vita.
Perché nessuno riesce a proteggermi meglio di quella voce.
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