
Guardarlo mi provocava una sensazione anomala, che si univa perfettamente alla mia estrosa immaginazione. La mia mente è sempre stata regista di film non richiesti, ma questo... era fuori dal comune, anche per i miei standard.
La protagonista sono io e sto lì, in piedi, davanti a lui, guardandolo fisso negli occhi. Dopo un lieve sorriso d'improvviso, cado a terra... In ginocchio. Troppo stanca ormai. Colpa di un'armatura pesante, tanto odiata quanto indispensabile.
E in quel momento di cedimento, di resa, mi lascio andare in un pianto straziante. Trattenuto a lungo. A tratti disperato. Un pianto che non veniva solo da me, ma di tutto il dolore che avevo visto.
Avvolta da un sentimento quasi infantile di pace e nutrimento, speravo nel potere di un suo abbraccio. Lo immaginavo così intenso, così curativo per la mia anima, che desideravo solo una cosa: che mi stringesse forte. Forte abbastanza da riassemblare i pezzi di me. E magari fonderli. O fonderci.
Volevo che ripescasse il mio cuore, nascosto sotto strati e strati di "non fa niente", "io non sento niente". Speravo nella leggerezza di un peso condiviso. In un luogo da poter chiamare casa. Dopo una guerra, dove si ritorna?
A casa.
Ecco, io speravo di riposarmi in lui. Di dargli la mia armatura e non metterla mai più. Dire finalmente: «Sei tu la mia casa. Sono arrivata sana e salva. Scusa il ritardo, ma lì fuori è un incubo.»
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